Nel 2026 siamo tutti su piattaforme che cambiano regole da un giorno all’altro. Un post vola, il successivo scompare nel rumore. Il sito web è l’opposto: è casa tua. Ci metti le parole giuste, mostri i lavori di cui vai fiero, raccogli i contatti senza dipendere dall’umore di un algoritmo. Non è un “di più” rispetto ai social: è il posto dove tutto converge.
Un sito serve quando vuoi spiegare bene cosa fai, quando ti occorrono storie strutturate (case study, processi, risultati), quando hai bisogno di fiducia: pagine chiare, policy, riferimenti. Anche chi ti conosce da Instagram o LinkedIn, prima o poi, passa dal sito per capire se contattarti davvero.
Non serve complicarlo: spesso basta una struttura leggera—una home che dice a chi ti rivolgi e come aiuti, una pagina “Servizi”, una “Lavori” con 2–3 casi spiegati bene, un “Contatti” che non fa perdere tempo. In cima, una promessa chiara; in fondo, un invito semplice: scrivimi o prenota una call.
Che cosa rende un sito vivo? Piccoli aggiornamenti costanti: un articolo ogni tanto, una storia di progetto, una risorsa utile. È così che diventa un asset: qualcosa che cresce con te, che continui a controllare, che ti porta conversazioni interessanti nel tempo.
In sintesi: i social ti fanno scoprire; il sito ti fa scegliere. Nel 2026 ha senso proprio per questo.
